quarta-feira, 29 de agosto de 2018

Enrico Caviglia

Enrico Caviglia, "generale della vittoria"

(Pier Paolo Cervone)

A 53 anni è promosso generale in territorio di guerra e trasferito sull'altopiano. Gli assegnano il comando della brigata Bari, appena distrutta sul San Michele. La trova a Scodovacca, vicino a Cervignano, gli uomini gettati in un campo, spremuti come un limone. Cadorna ha appena inaugurato la teoria delle "spallate": si va all'attacco frontale, le truppe escono allo scoperto e tentano l'assalto, al grido di "Savoia", di quelle cime imprendibili, presidiate dagli austriaci.

E il Carso si rivela insuperabile, altro che arrivare in pochi mesi a Trieste; come era previsto dal Comando Supremo. Sogni, nient'altro che sogni. E la guerra, che doveva essere breve, si annuncia lunga, tragicamente lunga. Il Carso, brullo, pochi alberi, dove il colore predominante è il bianco con tutti quei sassi che trasformano la zona in un immenso ossario.

Un calvario per i nostri soldati. "Per loro" - dice Caviglia - "è come avere dinnanzi un muraglione liscio che non dà presa. Per salirvi bisogna ammucchiarvi dei cadaveri. Ma in quei giorni ho dovuto condurre per 20 volte la mia brigata ad attacchi pazzeschi, senza preparazione, davanti a San Martino del Carso." Cadorna non tollera cedimenti. Invia circolari dal duro tenore, incalza i comandanti, li invita "a mettere le ali" ai loro uomini. Avanti, avanti, bisogna andare avanti. Durante 75 giorni consecutivi, nell'autunno del primo (per noi) anno di guerra, Caviglia conduce la sua brigata nei combattimenti di Bosco Lancia e Bosco Cappuccio. Perde 6500 soldati, più di quanti ne aveva all'inizio. Ricorda nel Diario: "Dopo aver condotto per tre volte in un giorno la mia brigata, sempre più ridotta, contro trincee nemiche imprendibili, per la potenza del fuoco, i fili di ferro e la situazione dominante, ho ricevuto per la quarta volta l'ordire di partire ad un nuovo attacco. Costretto ad obbedire, non potendo impedire un così orribile sciupìo della vita dei miei soldati, devo confessare che quel giorno ho avuto un momento di disperazione. Non ho mai sofferto tanto della stupidità della guerra che eravamo obbligati a fare."

Nel 1916 viene trasferito sull'Altipiano dei "Sette Comuni" e vi rimane sino al giugno del '17 e prende parte alla battaglia dell'Ortigara di cui critica apertamente l'impostazione.

Caviglia, con la sua divisione, fa parte del XX Corpo d'armata del generale Montuosi che deve sopportare il peso principale dell'assalto muovendosi su un fronte di 14 chilometri con gli stessi metodi adottati sul Carso.

Il 9 giugno si va all'attacco e l'Ortigara è conquistata; dopo 10 giorni di sanguinosi assalti gli alpini fanno il miracolo.

Ma mentre Cadorna è in Francia per incontrare il collega Foch, Il feldmaresciallo Goinginger lancia i suoi uomini alla riconquista della vetta. Ci riesce in una notte, tra il 25 e il 26 giugno, con pochi uomini, dopo aver individuato il punto di più debole. Paghiamo la battaglia dell'Ortigara, tra morti, feriti e dispersi, con 28 mila uomini di cui 13800 alpini.

Il 1917, per il Regio esercito, è il terzo anno di guerra. Il più lungo, il più drammatico, il più sanguinoso. Quello che, più di altri, finirà nella trasmissione orale dei ricordi. Specie nel Nord Est, là dove questi fatti si sono svolti. La ritirata dopo la disfatta di Caporetto costringerà tre milioni di persone, combattenti e non, a percorrere in pochi giorni, e in modo tumultuoso, le stesse strade verso la salvezza, verso il Tagliamento, poi verso il Piave, per sfuggire all'occupazione nemica. Nel mese di luglio Caviglia è promosso generale di Corpo d'armata per meriti di guerra. Da Asiago si trasferisce sull'Isonzo, a Villa Rubini, sede del comando del XXIV Corpo, tra Ronzina e Inhovo.

Non è questa la sede per raccontare, nel dettaglio, le battaglie della Bainsizza e di Caporetto che caratterizzano il 1917 con uno sciupìo pauroso di vita del nostro schieramento, soprattutto grazie all'azione del XXIV Corpo di Caviglia, che procede sulla Bainsizza per oltre 15 chilometri ed è pronto a schierare la cavalleria, affacciarsi nel Vallone di Chiapovano, poi prendere la strada che porta a Lubiana e provocare anche la caduta di Trieste con un anno di anticipo, preoccupa, e molto, il nemico.

L'alto comando austro-ungarico chiede così l'aiuto dell'alleato tedesco. I due Stati maggiori preparano, sulla carta, la dodicesima battaglia dell'Isonzo, che per noi si esaurirà in un solo nome: Caporetto. Nella Battaglia di Caporetto, è uno dei pochi generali a non perdere la testa. Non dà la colpa (come Cadorna) della disfatta ai soldati. E se lo fa (come nel caso della brigata Roma) se ne ravvede pubblicamente e lo ribadisce nei suoi libri. Non sparisce nelle retrovie (come Badoglio), non si suicida (come il povero Villani), non ordina una precipitosa ritirata all'insaputa di tutti (Arrighi e Farisoglio).

Anzi: copre la ritirata della 3ª Armata, che non era stata investita dall'urto nemico, assorbe due divisioni di Badoglio, insiste per cambiare l'indicazione dei ponti sul Tagliamento assegnati a ciascun Corpo e disobbedendo all'ordine di Cadorna fa passare i suoi uomini su quelli di Madrisio e Latisana. Non su quelli della Delizia a Codroipo, troppo distanti e da destinare alle truppe del Duca d'Aosta. Caporetto ci costa 40 mila uomini tra morti e feriti, 280 mila prigionieri, 350 mila sbandati e disertori, 3150 cannoni, 1700 bombarde, 3000 mitragliatrici. Gli austro tedeschi avanzano e sognano di entrare a Venezia e a Milano. Non ce la faranno. Sul Piave non passa lo straniero. Cade la stella di Cadorna, al suo posto arriva il napoletano Armando Diaz.

Caviglia è d'accordo sulla sostituzione del generalissimo, ma poi avviene il miracolo di Caporetto: finalmente l'Italia tutta prende coscienza del grave rischio che si sta correndo dopo l'invasione delle regioni del Nord-Est. L'intero Paese si stringe attorno al Regio Esercito, arrivano aiuti alle famiglie, l'industria bellica produce il massimo sforzo per dare ai "ragazzi del '99", l'ultima classe chiamata al fronte, i mezzi necessari per fronteggiare il nemico.

Nel giro di pochi mesi Caviglia passa dal comando del XXIV Corpo sciolto (ingiustamente) all'indomani di Caporetto a quello del VIII Corpo (già di Grazioli), poi al X della la Armata (generale Pecori Giraldi). Infine, promosso, sale l'ultimo gradino della carriera il 19 giugno 1918. Diaz lo vuole al vertice dell'8ª Armata al posto del generale Pennella. Il 29 è la giornata decisiva. L'VIII corpo e finalmente riuscito a varcare il Piave, le porte di Vittorio Veneto sono spalancate. Caviglia, prima dell'attacco, aveva insistito soprattutto su una cosa: avanzare sempre, non formare teste di ponte, evitare gli attacchi frontali degli abitanti, accerchiarli, lasciando reparti indietro, alle ali.

La sera di quel giorno è informato che il XVIII Corpo d'Armata, comandato dal generale Di Giorgio, si è fermato sulle alture a sud di Belluno. Gli chiede spiegazioni al telefono, poi spazientito replica: "Niente fortificare, niente teste di ponte. Scenda subito al Piave. Gli austriaci si ritirano, inseguimento."

Solo sul Grappa continua la resistenza del nemico, ma la missione della 4ª Armata del generale Giardino è compiuta: ha avuto 5.000 morti e 20 mila feriti, il 67% nelle perdite dell'intero esercito nell'ultima battaglia. Caviglia prevede la rotta dell'avversario, ricorda Caporetto, sa che cosa succede quando uomini, cavalli, muli, veicoli, artiglierie, disseminate su un fronte di centinaia di chilometri, si affollano pazzamente in poche ore su poche strade.

Allora dà il "pronti" ai mezzi rapidi, alla cavalleria, ai ciclisti, alle autoblindate. "Non resta", pensa, "che raccogliere dappertutto i frutti della nostra vittoria, inseguire, incalzare il nemico, non dar tregua, penetrare nel territorio e dettare la pace da Vienna." Caviglia, se non lo avessero fermato, sarebbe arrivato sino alla capitale dell'impero asburgico, nel cuore di chi per quattro anni, ci aveva costretti a una terrificante guerra. Procede in macchina oltre Vittorio Veneto, che cade alle 9 del 30 ottobre, e i soldati lo riconoscono: "Generale Caviglia, a Trieste." Risponde agitando il berretto: "A Trieste, da Trenta." Ma quando vede i prigionieri, a migliaia, avviliti, affamati, laceri, umiliati, che gettano le armi, il suo stato d'animo cambia. "In quel momento, tutto il mio odio svanisce e non provo per quelle che povere creature umane che una immensa, profonda, pietà." Il 3 novembre alle 15,15, gli italiani entrano a Trenta e meno di due ore dopo i bersaglieri sbarcano a Trieste.

Senatore nel 1919, con il terzo ministero Orlando venne anche nominato ministro della guerra. Dal 1920 al 1925 fu comandante designato d'armata. All'impresa dannunziana di Fiume, con il suo pericoloso carattere di sedizione militare antigovernativa che avrebbe potuto giungere al cuore dello stato italiano, pose fine il fermo atteggiamento del generale Caviglia.

Era indubbiamente il perso naggio più adatto, con il largo consenso che s'era gua dagnato nell'esercito e nel paese grazie al suo operato nella guerra 15/18, a svolgere un'azione e a prendere decisioni la cui necessità, obiettivamente giustificata dalle avventate iniziative del Comandante, non escludeva il rischio che apparissero impopolari. Il 1° dicembre 1920 Caviglia intimò alla Reggenza di Fiume di ritirare le sue truppe entro i confini stabiliti dal trattato di Rapallo e ordinò il blocco delle coste e delle isole. Gli episodi che seguirono furono un'ulteriore conferma di ciò che sarebbe potuto capitare se non si fosse preso un atteggiamento risoluto: la corazzata Dante Alighieri non obbedì all'ordine di lasciare il porto fiumana, i cacciatorpediniere Bronzetti ed Espero, la torpediniera 68 P.N. si misero agli ordini di D'Annunzio. Questidi chiarò ufficialmente di non riconoscere il trattato di Rapallo e Caviglia dovette ricorrere alla forza: da una nave da guerra, la vigilia di Natale, fece sparare alcune cannonate sul palazzo dove si era stabilito il dittatore. Fu il cosiddetto "Natale di Sangue"; D'Annunzio, che aveva ostili il Consiglio nazionale fiumana e la popolazione (disturbata ed irritata anche dal comportamento dei legionari) rassegnò i poteri.

Dopo la marcia su Roma quando il maestro romagnolo diventa Primo ministro, quando le camicie nere della rivoluzione sfilano sotto il Quirinale salutate dal balcone da Mussolini, dal re, da Diaz e da Thaon di Revel, Enrico Caviglia si trova in Sud America. Era partito alla fine di marzo. Una missione ufficiale per decorare i combattenti italiani e prendere contatti per le industrie che cercavano di espandersi all'estero. La grande maggioranza degli italiani in Sud America è di origine ligure e un suo cugino, Giovanni Caviglia, è ministro dell'Industria. Quando torna in Italia trova al potere il primo governo Mussolini appoggiato da quel "listone" che manda alla Camera democratici, liberali e fascisti.

L'appoggio di Caviglia è di breve durata. Il delitto Matteotti scuote gli animi del Paese. A chi, come il generale-senatore, invoca "una politica di pace", chiede "la pacificazione di tutti i suoi figli" e di ascoltare "l'ansiosa voce della Grande Madre: essa ci ammonisce ad abbandonare per sempre l'odio e i rancori, a dimenticare le offese e a rivolgere il il pensiero all'avvenire", il fascismo risponde con le leggi speciali, con l'abolizione delle libertà individuali e di gruppo, con la soppressione della libertà di stampa, insomma con la dittatura. Una lettera, inviata a una non meglio precisata "ottima amica", spedita da Finalmarina l'8 settembre 1924, esprime bene il pensiero cavigliano:

"Noi abbiamo vinto l'Austria, ma la sua nefasta influenza perdura dopo due generazioni in questo popolo in gran parte immaturo per la libertà, pronto a darsi anima e corpo ad un uomo abbacinato dai bagliori di orpello di questi ciarlatani al potere, D'Annunzio o Mussolini.

Mia cara amica, Ella fin dal principio, con un'acutezza di percezione straordinaria, ha capito subito chi era Mussolini, come aveva capito D'Annunzio, ed oggi Le riconosco questo grande mento. Ma come può credere che si possa fare qualcosa quando si hanno le idee che ho io di questo popolo italiano? Qui nella terra ligure siamo assai più indipendenti. Forse individualisti, ma non amiamo i ciarlatani."

Eppure un tentativo va fatto. E Caviglia ci prova. La crisi provocata dal delitto Matteotti lascia intravedere la possibilità di una successione a Mussolini, coinvolto personalmente nel sequestro e nell'uccisione del leader socialista. Anche il gruppo liberale di Amendola e dei deputati dell'Aventino vede con favore un governo militare di transizione guidato da Giardino o da Caviglia.

Ma Mussolini riprende rapidamente in mano le cose e per Caviglia comincia il lungo esilio. Durerà 18 anni. Sino alla morte. Caviglia deve accontentarsi del ruolo di "generale della Vittoria". E' colmato di onori, ma è privato di ogni responsabilità concreta nella politica militare italiana. Nel giugno '26, in occasione dell'ottavo anniversario della battaglia del Piave, è promosso al grado di Maresciallo d'Italia. Nel dicembre '29 riceve il Collare dell'Annunziata, massima onorificenza di Casa Savoia, che lo equipara a "cugino" del re. "I collari dell'Annunziata sono i parenti poveri della Casa Reale. Ogni casa che si rispetti ha i suoi parenti poveri. Perciò in Italia ci sono i collari dell'Annunziata." Tra distintivi, medaglie e vari altri titoli, potrebbe ricoprirsi il petto. Ma lui non ci tiene: "Mi sembra di essere un asino carico di reliquie." Caviglia accetta la sua emarginazione, con dignità e contenuta amarezza senza cedere alla tentazione di riguadagnare terreno trescando negli ambienti fascisti o cercando facile successi di pubblicità.

Decide di ritirarsi a fare il contadino nel suo paese natale. Trascorre di norma sei mesi a Finale e sei nella capitale. Acquista alcuni terreni sulle alture e li affida a fidati manenti che producono un ottimo olio e un eccellente vino bianco servito al casinò di Sanremo in occasione di serate di gala. I poderi di Caviglia diventeranno fattorie modello. Comincia a scrivere.


Fonte:
http://www.isrecsavona.it/pubblicazioni/quaderni/numero-9/cervone.pdf

Mais:
http://archive.org/details/vittorioveneto00cavi