domingo, 29 de outubro de 2017

Caporetto

LANKELOT
18/08/2010

Viva Caporetto! ("La Rivolta dei Santi Maledetti")

(Gianfranco Franchi)

"Non è un libro di guerra, questo. È il libro di un uomo che fin dai primi giorni è entrato, come volontario, nel cerchio della guerra, a capo chino, bestemmiando (non Dio), e che ne è uscito all'ultimo giorno, benedicendo Dio, a capo chino, come un francescano; di un uomo che ha lasciato la trincea assetato d'amore e di pace, ma avvelenato fin nelle radici d'odio e di disperazione. È il libro di un uomo, un uomo qualunque, che è andato in trincea, fante tra fanti, come altri va in chiesa o all'officina o al podere per la confessione o la fatica quotidiana. È il libro di un uomo normale, di un uomo in carne ed ossa che tutto ha accettato come un sacrificio, come un dovere istintivo, che ha sfogliato la sua complessa mentalità, fino a ridurla al più semplice boccio, per poter comprendere gli umili e i primitivi con i quali frangeva il pane e divideva la paglia. Non tutti potranno leggere questo libro, perché non tutti avranno disperato" (Malaparte, "La rivolta dei santi maledetti", ex "Viva Caporetto!")

"Viva Caporetto!" apparve originariamente nel 1921, a Prato: fu subito sequestrato per il suo contenuto antipatriottico e disfattista. Malaparte - leggiamo nella nota al testo del Meridiano Mondadori 1997 - lo ristampò subito, a Roma, col titolo "La rivolta dei santi maledetti": pure in questo frangente incappò nel sequestro. Terza edizione, due anni più tardi, con integrazioni ed emendamenti: terzo sequestro. Insomma: Giolitti, Bonomi o Mussolini, poco cambiava per il giovane Suckert-Malaparte. Cos'aveva di così provocatorio e così antitaliano il libello in questione? Cos'era a stabilire i presupposti per cui fosse proibito? Vediamo.

Malaparte, già volontario tra i rivoluzionari della Legione Garibaldina delle Argonne, fronte francese, era tornato in Italia nel 1915, per arruolarsi come "soldato di fanteria, cioè come proletario", perché aveva capito che "la civiltà proletaria sarebbe uscita dalle trincee, dalla fanteria" (p. 25), e sapeva che nella fanteria si entrava "per destinazione o per vocazione", o "per punizione - come aveva stabilito Cadorna" (p. 42). E così, l'artista racconta d'aver assistito con meraviglia e gioia alla "placida serenità" con cui lavoratori e braccianti s'erano messi all'opera in guerra, mutando mansioni e abitudini come niente fosse. E spiega d'aver osservato la loro rabbiosa e dolorosa accettazione del destino della morte facile al fronte, stupendosi della capacità di rassegnazione, della "normalità" del pensiero d'esser parte d'una "fatalità". Malaparte capisce che al fante non importa sapere: il fante non chiede mai niente a nessuno, nemmeno a Dio. Figuriamoci allo Stato.

Nel libro sostiene che la storia della disfatta di Caporetto sia stata vittima d'un uso "immondo" da parte di "dirigenti e partiti": considera l'accaduto un "aspetto orrendo e sanguinoso" della rivoluzione nazionale intrapresa nel 1821, soffocata nel Settanta e ripresa nel 1914. Ripete che i soldati sono andati arrancando per petraie e costoni, in guerra, senza eroismo e senza lamentarsi: che ci si è battuti per "bontà e virtù naturale", "per nessuna ragione speciale", senza fede, senza odio. E che la nazione non ha fatto niente per dimostrare gratitudine nei confronti del sacrificio di questi cittadini. E che quando, man mano, la fanteria ha compreso tutto questo, ha deciso di prendere e di buttarsi contro la legge. E cioè?

"Cioè contro la nazione che non lo capiva, contro gli imboscati, contro gli inabili alle fatiche di guerra, gli esonerati, i patrioti retorici, gli speculatori del sacrificio altrui, contro il Governo disfattista, contro i nemici della fanteria, contro i nemici dell'Italia, del Carso e degli Altipiani. Caporetto" (IX, p. 72).

Caporetto è stata, nell'interpretazione di Malaparte, una rivolta di classe: "la rivolta della contro i retoricamente patriottici e umanitari": una forma di lotta di classe, antiborghese e antiretorica. "L'Italia-trincea contro l'Italia-bordello", insomma. Caporetto è stata "la rivoluzione che ha sferzato a sangue, smascherato, bollato a fuoco tutti i ruffiani e le sgualdrine che riempivano l'interno del paese" (nota 1, cap. X, p. 75). Caporetto è stato un gesto disperato, non un atto di vigliaccheria. È stato, a sentir Malaparte, il principio della formazione d'una coscienza di classe prodromico a una rivoluzione socialista: ma individualista, e non collettivista. In questo sta la sua fondamentale distanza rispetto a quanto stava avvenendo in Russia.

La narrazione è contaminata da tutta una serie di bordate contro la cultura italiana, e da una sassaiola rivolta al popolo: Malaparte denuncia che l'Italia, patria del diritto, sia un paese incivile, privo del senso del diritto. Nessuno - ribadisce - si sente cittadino: nessuno rispetta lo Stato. Siamo l'espressione d'una "sudicia democrazia latina", che invece d'insegnare rispetto per la collettività insegna a ridere dello Stato. Siamo una nazione che fatica a diventare patria: proprio come in questi nostri giorni, quasi un secolo più tardi.

Difficile davvero riuscire a immaginare un tempo, come quello vissuto da Malaparte, in cui un libro stampato in poche centinaia di copie, inizialmente addirittura autoprodotto, potesse riuscire a guadagnare tante attenzioni da parte delle istituzioni, sino al (ripetuto) sequestro. Più difficile ancora riuscire a immaginare quale polveriera dovesse essere la cultura del nostro paese, e quanto complicate le condizioni di larga parte dei cittadini, se le parole di denuncia - provocatorie, ma non certo insensate - di questo libello potevano costituire ragione di rivolta sociale, o di ribellione. Chiaro è che Malaparte era riuscito, con immediatezza ma non senza retorica, a interpretare e demistificare con chiarezza e sensibilità le ragioni della rabbia, del dolore e del dissenso dei nostri soldati mandati al fronte senza capire perché. Le ragioni patriottiche, vale a dire il riscatto delle nostre Trento e Trieste, erano davvero difficilmente comprensibili per chi non aveva un grado di istruzione accettabile, o una vaga idea d'esser parte d'uno Stato nato da nemmeno cinquant'anni dopo un millennio abbondante di decadenza, rovina e frammentazione.

"La rivolta dei santi maledetti" è e rimane un documento storico-letterario di grande interesse, autentico socialismo e sincero patriottismo: una lezione politica e un commosso omaggio alle centinaia di migliaia di soldati caduti sul campo. Tecnicamente, la struttura è tutt'altro che robusta; siamo dalle parti dei libelli d'invettiva destinati a una circolazione romantica, diciamo così, non certo dalle parti degli organici atti d'accusa, fondati su documentazioni incontestabili. Capiamoci - è letteratura. Ma è così potente l'odore del sangue e il sentore dell'ingiustizia che non si può che giustificare l'artista per il sentiero scelto.

Libro sicuramente importante per tornare a meditare sul principio del nostro Novecento, sui fattori di coesione sociale e patriottica, sul senso del martirio d'una generazione di giovani italiani al fronte. Da rileggere.

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"L'Italia, dove il diritto è nato, è fra i paesi più incivili del mondo: vi manca, cioè, il senso del diritto."

"Quando un popolo individualista come il nostro perde la fiducia in sé stesso e nelle istituzioni che lo reggono, l'immoralità diventa una forma di viver civile e la mediocrità invade la cosa pubblica."

"Mai fino ad allora, il popolo, in quanto popolo, si era battuto. Le guerre erano state combattute, fino ad allora, dagli eserciti regolari, sotto la guida di pochi uomini esperti d'arme. Le nazioni avevano sempre continuato a vivere in pace, sul margine della guerra, attendendone l'esito. Questa volta, tutto il popolo fu chiamato in aiuto della società costituita, nemica, economicamente e socialmente, del popolo."

"A mano a mano che vedevo i corpi adattarsi alle varie necessità di quella nuova esistenza, io cercavo di scoprire ne' miei compagni i segni dell'inevitabile trasformazione morale, che doveva compiersi a mano a mano. Avevo la persuasione di assistere allo svolgersi di un fenomeno nuovo nella storia dell'umanità. Mai fino ad allora l'umanità si era piegata a un così grande sforzo. Tutte le energie della razza erano puntate al compimento di un'opera immensa, che avrebbe richiesto anni di sacrificio e torrenti di sangue: qualcosa di nuovo sarebbe inesorabilmente nato da quello sforzo titanico."

"Quando parlo di soldati, intendo i soldati di fanteria, i malvestiti, i laceri, i sudici, i buffi e miserabili soldati di fanteria. Le altre armi, che hanno preso magnificamente parte alla guerra, non hanno contribuito a formare l'odierna mentalità del popolo, balzata fuori dal tormentoso crogiolo della fanteria."

"Su tutta la linea delle Alpi e dell'Isonzo la nostra magnifica razza si faceva ammazzare senza una bestemmia, senza mai voltarsi indietro verso le 'greche', con un coraggio rassegnato che era più bello del solito coraggio soldatesco fatto di spavalderia e d'impeto assoluto."

"Avanti figlioli! E la fanteria va avanti. Lenta, inesorabile, senza volontà, ma non come un gregge. Il gregge cammina senza capire: la fanteria capisce, ma non vuol sapere. Che importa sapere perché si muore? Bisogna morire."

"E il popolo dei fanti, magnifico d'ira e di fierezza, s'inginocchiò a testa nuda sulle pietraie del Grappa. Percosso nel viso dall'ondata di ingiurie che saliva dalla nazione sbigottita, il popolo delle trinceemostrò ancora una volta come si muore, come si combatte, come si sopporta per l'onore della razza."

"Qualsiasi governo ha il diritto di costringere, pur con la forza, i cittadini a compiere un'azione utile alla collettività: a condizione, però, che li possa e li sappia costringere."


Fontes:
http://www.lankelot.eu/letteratura/malaparte-curzio-viva-caporetto-la-rivolta-dei-santi-maledetti.html
http://it.wikiquote.org/wiki/Curzio_Malaparte

Mais:
http://www.youtube.com/watch?v=ennI9aCr7Lw
http://en.wikipedia.org/wiki/Battle_of_Caporetto

domingo, 22 de outubro de 2017

O Oriente Médio

Trechos de O Oriente Médio (1996), de Bernard Lewis.


A I Guerra Mundial foi a última que o Império otomano travou como grande potência entre grandes potências. Em fins de outubro de 1914, navios de guerra turcos, acompanhados por dois cruzadores alemães, bombardearam os portos russos de Odessa, Sebastopol e Theodosia, no mar Negro. O sultão-califa proclamou uma jihad contra todos os que pegassem em armas contra ele e seus aliados. A Grã-Bretanha, a França e a Rússia, as três principais potências Aliadas, governavam vastas populações muçulmanas na Ásia central, norte da África e Índia. Os turcos e seus aliados alemães alimentavam a esperança de que esses súditos muçulmanos respondessem ao apelo da jihad e se levantassem contra seus senhores imperiais. Na verdade, não fizeram nada disso e os otomanos foram obrigados a enfrentar o poder da Rússia imperial e da Grã-Bretanha imperial nas suas fronteiras oriental e meridional.

No princípio, as coisas correram bem para os turcos. Em dezembro de 1914, eles iniciaram uma ofensiva na região oriental da Anatólia, capturaram Kars, cedida à Rússia em 1878 e, por algum tempo, ocuparam a cidade de Tabriz, no Irã, tomada dos russos, que vinham operando com toda liberdade nesse país, a despeito da neutralidade que o governo do xá proclamara, mas que era fraco demais para cumprir. No sul, em inícios de 1915, forças otomanas procedentes da Palestina cruzaram o deserto do Sinai e atacaram o canal de Suez, no Egito ocupado pelos britânicos.

Esses sucessos, no entanto, tiveram curta duração. No leste, os russos contra-atacaram com grandes efetivos e, com ajuda local, ocuparam e mantiveram por algum tempo a cidade de Van. No sul, o ataque turco ao canal de Suez foi repelido pelos britânicos que, enquanto isso, haviam enviado da Índia uma expedição ao golfo Pérsico. No dia 22 de novembro de 1914, uma força britânica ocupou o que era na ocasião o porto otomano de Basra. O objetivo imediato britânico era proteger o oleoduto que descia do Irã, mas este sucesso inicial encorajou planos mais ambiciosos. Em 1915, forças britânicas ocuparam certo número de cidades às margens dos rios Tigre e Eufrates e iniciaram o avanço para o norte, na direção de Bagdá.

Entrementes, os otomanos enfrentavam um ataque muito mais perigoso, a uma curta distância da capital. Em fevereiro de 1915, os britânicos iniciaram uma operação naval na área dos Dardanelos e ocuparam a ilha de Lemnos, onde estabeleceram uma base. Na primavera e verão, tropas britânicas e australianas desembarcaram em certo número de lugares na península de Galipoli, numa audaciosa tentativa para romper as defesas otomanas nos Estreitos e estabelecer contato com os russos no mar Negro.

Em fins de 1915 e princípios de 1916, a situação melhorou bastante para os otomanos. Os russos foram expulsos de Van, os britânicos amargaram uma derrota e tiveram que se render no Iraque, e as forças do sultão lançaram o segundo ataque contra o canal de Suez. Em princípios de 1916, após violenta luta e pesadas baixas, os britânicos e australianos retiraram-se de Galipoli e abandonaram a tentativa de forçar a abertura dos Estreitos.

A longo prazo, no entanto, prevaleceu o poder superior dos Aliados. Após a Revolução Russa de 1917, diminuiu a pressão do leste, mas o avanço britânico a partir do sul não pôde mais ser detido.

Durante todas essas lutas e sublevações, a vasta maioria dos súditos do Império otomano, quaisquer que fossem suas identidades étnicas e religiosas, permaneceu leal. Houve, contudo, duas exceções, dos armênios na Anatólia e dos árabes no Hijaz, na Arábia. Mesmo entre os armênios e árabes, contudo, a maioria era pacífica e ordeira, e os homens serviam nos exércitos do sultão. Entre os líderes nacionalistas de ambos os grupos, porém, havia alguns que viam na guerra a oportunidade de sacudir o jugo otomano e obter independência nacional. Evidentemente, esse desejo só podia ser realizado com ajuda das potências europeias, que eram nesse momento inimigas do sultão. Em 1914, os russos formaram quatro grandes unidades constituídas de voluntários armênios, e mais três em 1915. Todas elas, embora principalmente recrutadas na Armênia russa, incluíam armênios otomanos, alguns deles desertores, e figuras públicas bem conhecidas. Uma dessas unidades era comandada por um antigo membro armênio do Parlamento otomano. Bandos de guerrilheiros armênios surgiram em várias partes do país e, em vários locais, as populações armênias se levantaram em rebelião armada, notadamente na cidade anatoliana de Van, no leste, e na cidade ciliciana de Zeytun.

Na primavera de 1915, quando rebeldes armênios ganharam o controle de Van, os britânicos voltaram aos Dardanelos, os russos atacaram no leste e outra força britânica avançou, aparentemente, na direção de Bagdá, o governo otomano resolveu determinar a deportação e relocalização da população armênia da Anatólia - costume este tristemente conhecido na região desde os tempos bíblicos. Algumas categorias de armênios, juntamente com suas famílias, no entanto, foram declarados isentos de deportação: católicos, protestantes, operários das estradas de ferro e membros das forças armadas. A grande massa de armênios da Anatólia, que se estendia muito além das áreas em perigo e da ação de grupos suspeitos, no entanto, foi incluída na deportação e nas suas trágicas consequências.

Os deportados sofreram privações indescritíveis. No império em guerra, que passava por uma aguda escassez de material humano, não havia nem soldados nem gendarmes disponíveis, e a missão de escoltar os deportados foi entregue a uma força civil local, recrutada às pressas. As estimativas variam muito quanto aos números, mas não pode haver dúvida de que, pelo menos, centenas de milhares de armênios pereceram, talvez mais de um milhão. A maioria morreu de fome, de doenças e de exposição às intempéries; grandes números deles foram brutalmente assassinados, fosse por membros de tribos locais e aldeões, por negligência ou cumplicidade da escolta indisciplinada, que nem recebia soldo nem alimentos, ou pela própria escolta.

Parece que o governo central otomano fez algum esforço para controlar esses excessos. Os arquivos contêm telegramas de altas autoridades, preocupadas com a prevenção ou punição de atos de violência contra os armênios. Incluem eles registros de quase 1.400 julgamentos em cortes marciais, nos quais pessoal civil e militar foi julgado e condenado, alguns deles à morte, por crimes contra os deportados. Esse esforço, no entanto, produziu efeito apenas limitado e a situação foi com certeza agravada pelo rancor acumulado em décadas de conflito étnico e religioso entre os armênios e seus vizinhos outrora pacíficos. As cidades de Istambul e Ismir ficaram fora das ordens de deportação, como também grande parte da Síria e Mesopotâmia otomanas, para onde foram levados os deportados que sobreviveram.

A revolta árabe contra o domínio otomano ocorreu em terreno mais bem escolhido, foi mais bem planejada, teve sincronização melhor e contou com mais apoio do que a dos armênios. Enquanto os armênios estavam agrupados no coração da Turquia, em meio a uma população predominantemente muçulmana na Ásia, a revolta árabe começou no Hijaz, na Arábia, em uma província semi-autônoma, governada por um potentado árabe hereditário, o sharif Hussein, em território exclusivamente árabe e muçulmano, e incluiu Meca e Medina, os dois locais mais sagrados do islã. E contou com a vantagem adicional da grande distância dos centros de poder otomano e de fácil acesso para os britânicos, que se encontravam no Egito. Os rebeldes árabes tinham também algo de útil para oferecer aos britânicos e só depois de longas e cuidadosas negociações é que, em 1917, o sharif proclamou a independência do Hijaz e, mais tarde, proclamou-se "Rei dos Árabes". O governo britânico, que em cartas a Hussein fizera certas promessas a respeito de uma mal definida independência árabe, endossou a proclamação.

A importância militar de alguns milhares de irregulares beduínos, em batalhas que envolviam enormes exércitos regulares, pode ter sido diminuta, embora a importância moral de um exército árabe combater os turcos e, ainda mais, o governante de lugares sagrados denunciar o sultão otomano e sua chamada jihad, foi imensa e de valor especial para os impérios britânico e, incidentalmente, francês, na manutenção da autoridade que exerciam sobre súditos muçulmanos. A revolta árabe, além disso, teve melhor sincronização e coincidiu com a grande retirada das forças otomanas de todas as províncias árabes. Talvez mais importante que tudo, os árabes tiveram mais sorte em matéria de patrocinadores. Os britânicos, ao contrário dos russos, não haviam sido debilitados por uma revolução interna e puderam ir até o fim em ajuda militar. Já o cumprimento subsequente das promessas políticas era outro assunto, mas, pelo menos, salvou os rebeldes árabes de uma vingança otomana.

Em fins de 1916, forças britânicas avançaram do Egito para a Palestina otomana, enquanto outra força desembarcava no Iraque e reiniciava o interrompido avanço para o norte. Na primavera de 1917, forças britânicas haviam ocupado Bagdá, no Iraque, e Gaza, na Palestina. Em dezembro de 1917, capturaram Jerusalém e, em outubro de 1918, Damasco. No dia 29 de outubro de 1918, após três dias de negociação preliminar, uma delegação otomana subiu para bordo do navio de guerra britânico HMS Agamemnon, ancorado em Mudros, na ilha de Lemnos. No dia seguinte, assinaram um armistício.

A I Guerra Mundial assinalou a culminação da retirada do islã diante do avanço do Ocidente. O Irã, embora oficialmente neutro, foi devastado por soldados estrangeiros, com ajuda de forças auxiliares locais. Nas terras otomanas, esta guerra final, tal como acontecera com a Guerra da Crimeia, ocasionou um envolvimento mais intenso com a Europa e a aceleração de todos os processos de mudança. Mas, ao contrário da Guerra da Crimeia, terminou em derrota e os turcos foram obrigados a entregar seus territórios árabes à Grã-Bretanha e à França. Só em suas terras natais na Anatólia é que conseguiram desafiar os vitoriosos e, após uma luta, fundar uma república turca independente.

Os anos transcorridos entre 1918 e 1939 [...]

Esse período começou com o colapso ou, mais exatamente, a destruição da velha ordem que, tanto para melhor quanto para pior, prevalecera durante quatro séculos ou mais em grande parte do Oriente Médio. Os otomanos, construindo sobre a obra de seus predecessores, haviam erigido uma estrutura política que perdurara e um sistema político que funcionara. Tinham criado também uma cultura política que era bem compreendida e na qual cada grupo e, na verdade, cada indivíduo, sabia qual sua posição, poderes e limites e, mais importante ainda, o que devia e lhe era devido, a quem e por quem. O sistema otomano enfrentara tempos ruins, mas, a despeito de numerosas dificuldades, continuava a funcionar. Perdera a lealdade e aceitação da maioria de seus súditos cristãos, mas era ainda aceito como legítimo pela maior parte da população muçulmana. Nas últimas décadas, a ordem otomana começava a demonstrar sinais de recuperação e mesmo de melhoramento. Os aprimoramentos que porventura houvesse, no entanto, foram desviados e interrompidos pelo envolvimento do país na I Guerra Mundial e pelo resultante fim do Império - o colapso do Estado e o desmembramento de seus territórios.

Desde a chegada da expedição do general Bonaparte ao Egito, em fins do séc. XVIII, o curso dos fatos no Oriente Médio fora profundamente influenciado e, em tempos de crise, dominado pelos interesses, ambições e ações das Grandes Potências europeias. Quando os otomanos finalmente partiram, e as potências ocidentais se estabeleceram inequivocamente como governantes da região, as rivalidades imperiais assumiram uma forma nova e mais direta.

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Clareando a fumaça da batalha e as névoas da diplomacia no cenário do Oriente Médio após a I Guerra Mundial, tornou-se visível que haviam ocorrido grandes mudanças. Algumas delas trouxeram nova esperança a povos dominados por impérios orientais e ocidentais. [...]

Essas esperanças, no entanto, rapidamente se desvaneceram.

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[...] em 1919, quando um oficial turco chamado Mustafá Kemal, que mais tarde adotou o sobrenome Ataturk, organizou e liderou um movimento de resistência no coração da Anatólia contra invasores e ocupantes estrangeiros. Em uma série de vitórias notáveis, conseguiu expulsar do país as forças estrangeiras, anular o tratado de paz draconiano imposto pelos vencedores ao governo do sultão e, desde que este se recusara a alinhar-se com as novas forças, aboliu o sultanato e proclamou a república. Sob a liderança de Ataturk, a república implantou e executou um exaustivo e extenso programa de modernização e - o único no mundo muçulmano - secularização.

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Ao fim da I Guerra Mundial, a comunidade judaica, antiga e nova, alcançara proporções consideráveis. O governo britânico concedeu à ideia sionista reconhecimento formal com a Declaração Balfour, de novembro de 1917, manifestando o apoio do governo ao projeto de estabelecimento de um não definido "Lar Nacional para os Judeus". Os termos dessa promessa foram incorporados no mandato da Liga das Nações, sob o qual os britânicos administravam a Palestina. A promessa e sua implementação deram uma dimensão especial à luta árabe contra o mandato britânico e a presença judaica.


Mais:
http://www.biblebelievers.org.au/moongod.htm
http://www.crisismagazine.com/2016/was-muhammad-a-false-prophet
http://www.grupoalmuzara.com/a/fichalibro.php?libro=3026&edi=1

domingo, 15 de outubro de 2017

A dor dos outros

Trechos de Diante Da Dor Dos Outros (2003), de Susan Sontag.


Em 1924, no décimo aniversário da mobilização nacional alemã para a Primeira Guerra Mundial, Ernst Friedrich - um dos homens que, por razões morais ou religiosas, se recusaram a pegar em armas ou servir nas forças armadas - publicou o seu Krieg dem Kriege! (Guerra contra Guerra!). Trata-se de fotografia como terapia de choque: um álbum com mais de 180 fotos, em sua maioria retiradas dos arquivos militares e médicos da Alemanha, muitas delas consideradas impublicáveis pelos censores do governo, durante a guerra. O livro começa com fotos de soldados de brinquedo, canhões de brinquedo e outras diversões de meninos do mundo inteiro, e se encerra com fotos tiradas em cemitérios militares. Entre os brinquedos e os túmulos, o leitor tem um martirizante roteiro fotográfico de quatro anos de ruína, morticínio e degradação: páginas de igrejas e castelos demolidos e saqueados, aldeias arrasadas, florestas devastadas, navios de passageiros torpedeados, veículos destroçados, homens que - por razões religiosas ou morais - se recusaram a guerrear enforcados, prostitutas seminuas em bordéis militares, soldados agonizantes depois de um ataque de gás venenoso, crianças armênias esqueléticas. Quase todas as imagens de "Guerra contra Guerra!" são difíceis de olhar, em especial as fotos de soldados mortos, pertencentes aos vários exércitos, apodrecendo aos montes em campos e estradas e nas trincheiras da linha de frente. Mas, sem dúvida, as páginas mais insuportáveis desse livro, todo ele concebido para horrorizar e desmoralizar, encontram-se na parte intitulada "A face da guerra", 24 closes de soldados com imensos ferimentos no rosto. E Friedrich não cometeu o erro de supor que fotos de virar o estômago e de partir o coração simplesmente falariam por si mesmas. Cada foto tem uma legenda pungente em quatro idiomas (alemão, francês, holandês e inglês), e a perversidade da ideologia militarista é recriminada e escarnecida a cada página. Imediatamente denunciada pelo governo, por associações de veteranos e por outras organizações patrióticas - em determinadas cidades, a polícia invadiu as livrarias, e abriram-se processos contra a exibição pública das fotos -, a declaração de guerra de Friedrich contra a guerra foi aclamada pela ala esquerda dos escritores, artistas e intelectuais, bem como pelos membros de numerosas ligas antibelicistas, que predisseram para o livro uma influência decisiva sobre a opinião pública. Em 1930, "Guerra contra Guerra!" havia tido dez edições na Alemanha e fora traduzido para muitas línguas.

Em 1938, o célebre cineasta francês Abel Gance mostrou, em close, alguns exemplos da população de ex-combatentes horrendamente desfigurados e, em geral, mantidos ocultos - les gueules cassées ("os caras quebradas"), como eram chamados em francês - no clímax do seu novo filme J'accuse. (Gance fizera uma versão anterior, primitiva, do seu incomparável filme antibelicista, com o mesmo título consagrado, em 1918-19.) A exemplo da parte final do livro de Friedrich, o filme de Gance termina em um novo cemitério militar, não só para nos lembrar quantos milhões de jovens foram sacrificados ao militarismo e à inépcia entre 1914 e 1918 na guerra acalentada como "a guerra para pôr fim a todas as guerras", mas também para sugerir a condenação sagrada que aqueles mortos seguramente fariam recair sobre os políticos e os generais da Europa, se soubessem que, vinte anos mais tarde, outra guerra seria iminente. "Morts de Verdun, levez-vous!" ("Mortos de Verdun, levantem-se!"), grita o veterano ensandecido, protagonista do filme, e repete sua conclamação em alemão e em inglês: "Seu sacrifício foi em vão!". E a vasta planície mortuária vomita sua multidão, um exército de fantasmas claudicantes, em uniformes esfarrapados, com rostos mutilados, que se erguem de seus túmulos e partem em todas as direções, causando pânico em massa entre a turba já mobilizada para a nova guerra pan-europeia. "Encham seus olhos com esse horror! É a única coisa capaz de detê-los!", grita o louco para a multidão dos vivos em debandada.

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As fotos de guerra publicadas entre 1914 e 1918, quase todas anônimas, eram, em geral - quando de fato transmitiam algo do terror e da devastação -, de estilo épico e, frequentemente, retratos das consequências: os cadáveres espalhados ou a paisagem lunar resultante de uma guerra de trincheiras; as vilas francesas arrasadas que a guerra encontrara em seu caminho. A monitoração fotográfica da guerra tal como a conhecemos teve de esperar mais alguns anos, até ocorrer o drástico aprimoramento do equipamento profissional: câmeras leves, como a Leica, com filmes de 35 milímetros que podiam bater 36 fotos antes de ser preciso recarregar a máquina fotográfica. Agora era possível tirar fotos no calor da batalha, se a censura militar permitisse, e registrar closes bem cuidados das vítimas civis e dos soldados exauridos e enfarruscados.

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O fluxo incessante de imagens (televisão, vídeo, cinema) constitui o nosso meio circundante, mas, quando se trata de recordar, a fotografia fere mais fundo. A memória congela o quadro; sua unidade básica é a imagem isolada. Numa era sobrecarregada de informação, a fotografia oferece um modo rápido de apreender algo e uma forma compacta de memorizá-lo. A foto é como uma citação ou uma máxima ou provérbio.

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A era do choque - para a Europa - teve início em 1914. No decorrer do ano que antecedeu a Grande Guerra, como foi chamada por algum tempo, muito daquilo que se considerava seguro e garantido passou a ser visto como frágil e até indefensável. O pesadelo de um envolvimento militar suicida do qual os países em guerra foram incapazes de se desembaraçar - acima de tudo, o massacre diário nas trincheiras da frente ocidental - parecia, para muitos, haver superado a capacidade das palavras para descrevê-lo. Em 1915, ninguém menos do que o venerável mestre do intricado ofício de tecer um casulo de palavras em torno da realidade, o mago da verbosidade, Henry James, declarou a The New York Times: "Em meio a tudo isso, é tão difícil fazer uso das palavras como suportar os pensamentos. A guerra esgotou as palavras; elas se enfraqueceram, deterioraram-se [...]." E Walter Lippmann escreveu em 1922: "As fotos têm hoje o tipo de autoridade sobre a imaginação que a palavra impressa tinha no passado e que, antes dela, a palavra falada tivera. Parecem absolutamente reais."

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Não é de surpreender que muitas imagens clássicas dos primórdios da fotografia de guerra tenham sido encenadas, ou que seus temas tenham sido adulterados.

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Na era das câmeras, fazem-se exigências novas à realidade. A coisa autêntica pode não ser assustadora o bastante e, portanto, carece de uma intensificação, ou de uma reencenação mais convincente.

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Os critérios para o uso de câmeras no front com fins não militares tornaram-se muito mais restritivos, ao passo que a guerra tornou-se uma atividade levada a efeito com a ajuda de equipamentos óticos de precisão crescente, para localizar o inimigo.

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As fotos objetificam: transformam um fato ou uma pessoa em algo que se pode possuir. E as fotos são uma espécie de alquimia, a despeito de serem tão elogiadas como registros transparentes da realidade.

Muitas vezes uma coisa parece, ou dá a sensação de que parece, "melhor" numa foto.

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Assim como a pessoa pode habituar-se ao horror na vida real, pode habituar-se ao horror de certas imagens.

Contudo, existem casos em que a repetida exposição àquilo que choca, entristece, consterna não esgota a capacidade de reação compassiva.

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De fato, a própria noção de atrocidade, de crime de guerra, está associada à expectativa de alguma comprovação fotográfica.

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Atrocidades que não estejam garantidas em nossa mente por imagens fotográficas bem conhecidas, ou das quais simplesmente temos muito poucas imagens - como o extermínio total do povo hereró na Namíbia, decretado pela administração colonial alemã, em 1904 -, parecem mais remotas. Essas são lembranças que poucos se deram ao trabalho de reivindicar.

A familiaridade de certas fotos constrói nossa ideia do presente e do passado imediato. As fotos traçam rotas de referência e servem como totens de causas: um sentimento tem mais chance de se cristalizar em torno de uma foto do que de um lema verbal. E as fotos ajudam a construir - e a revisar - nossa noção de um passado mais distante, graças aos choques póstumos produzidos pela circulação daquelas até então desconhecidas. Fotos que todos reconhecem são, agora, parte constituinte dos temas sobre os quais a sociedade escolhe pensar, ou declara que escolheu pensar. Essas ideias são chamadas de "memórias" e isso, no fim das contas, é uma ficção.

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Inerente à perpetração desse mal é o desaforo de fotografá-lo. As fotos foram tiradas como suvenires e, algumas delas, transformadas em cartões-postais.

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Qual o sentido de exibir essas fotos? Para despertar indignação? Para nos sentirmos "mal", ou seja, para consternar e entristecer? Para nos ajudar a cumprir o luto? Será mesmo necessário olhar para essas fotos, uma vez que tais horrores se encontram num passado remoto o bastante para que estejam fora do alcance de qualquer punição? Tornamo-nos melhores por ver essas imagens? Será que elas de fato nos ensinam alguma coisa? Acaso não vêm apenas confirmar aquilo que já sabemos (ou queremos saber)?

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A questão é: a quem queremos culpar? Mais precisamente: a quem acreditamos ter o direito de culpar? [...] Que atrocidades do passado incurável julgamos ser nosso dever revisitar?

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Podemos nos sentir obrigados a olhar fotos que recordam graves crimes e crueldades. Deveríamos nos sentir obrigados a refletir sobre o que significa olhar tais fotos, sobre a capacidade de assimilar efetivamente aquilo que elas mostram. Nem todas as reações a tais fotos estão sob a supervisão da razão e da consciência. A maioria das imagens de corpos torturados e mutilados suscita, na verdade, um interesse voyeurístico e lascivo.

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Imagens do repugnante também podem seduzir. Todos sabem que não é a mera curiosidade que faz o trânsito de uma estrada ficar mais lento na passagem pelo local onde houve um acidente horrível. Para muitos, é também o desejo de ver algo horripilante. Chamar tal desejo de "mórbido" sugere uma aberração rara, mas a atração por essas imagens não é rara e constitui uma fonte permanente de tormento interior.

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A proximidade imaginária do sofrimento infligido aos outros que é assegurada pelas imagens sugere um vínculo entre os sofredores distantes e o espectador privilegiado, um vínculo simplesmente falso.

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Inundados por imagens do tipo que, no passado, chocava e causava indignação, estamos perdendo nossa capacidade de reagir. A compaixão, distendida até seu limite, está ficando entorpecida. Esse é o diagnóstico a que estamos familiarizados.

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A frustração de não ser capaz de fazer nada a respeito daquilo que as imagens mostram pode se traduzir numa acusação contra a indecência de olhar tais imagens, ou das indecências existentes nas maneiras como tais imagens são disseminadas - ladeadas, como pode muito bem ocorrer, por publicidade de cremes emolientes, analgésicos e automóveis caríssimos.

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A atual função primária do museu é o entretenimento e a educação, combinados de várias maneiras, e o marketing de experiências, gostos e simulacros. O Museu de Guerra Imperial de Londres, admirado por sua coleção de material bélico e pela seção de iconografia, oferece agora dois ambientes que reproduzem fielmente para o público circunstâncias da Primeira Guerra Mundial, A Experiência das Trincheiras (o rio Somme, em 1916), um percurso completo com ruídos reproduzidos em fitas (explosões de bomba, gritos), mas sem cheiros (nada de cadáveres putrefatos, nem gás venenoso).


Mais:
http://encyclopedia.1914-1918-online.net/article/photography
http://en.wikipedia.org/wiki/Virtue_signalling

domingo, 8 de outubro de 2017

O Imperador Guilherme

Trechos de 'O Imperador Guilherme', uma das crônicas de Ecos De Paris (1905), de Eça de Queirós.


Com efeito, desde que subiu ao trono, Guilherme II, imperador e rei, ainda não deixou de atrair e reter sobre si a curiosidade do mundo, uma curiosidade divertida e arregalada de público que espera surpresas e lances - como se esse trono da Alemanha fosse na realidade um palco vistosamente ornado no Centro da Europa. E esta é até agora a obra pitoresca de Guilherme II - o ter convertido o trono dos Hohenzollerns num palco onde ele constantemente e soberbamente se exibe com caracterizações inesperadas. Bem pode, pois, o sentimental heresiarca da Vida de Jesus [Ernest Renan] lamentar que a morte lhe não consinta assistir, no quinto acto, à solução deste imperador problemático. Pois que, por ora, neste primeiro acto de três anos, desde que ele trilha o seu palco imperial, Guilherme II, pela diversidade e multiplicidade das suas manifestações, só tem revelado que existem nele, como outrora em Hamlet, os germes de homens vários, sem que possamos preconceber qual deles prevalecerá, e se esse, quando definitivamente desabrochado, nos espantará pela sua grandeza ou pela sua vulgaridade. Realmente, neste rei, quantas encarnações da realeza!

Um dia é o rei-militar, rigidamente hirto sob o casco e a couraça, ocupado somente de revistas e manobras, colocando um render da guarda acima de todos os negócios de Estado, considerando o sargento instrutor como a unidade fundamental da nação, antepondo a disciplina do quartel a toda lei moral ou da Natureza, e concentrando a glória da Alemanha na hirta precisão com que marcham os seus galuchos. E subitamente despe a farda, enverga a blusa, e é o rei-reformador, só atento às questões do capital e do salário, convocando com fervor congressos sociais, reclamando a direcção de todos os melhoramentos humanos, e decidindo penetrar na história abraçado a um operário como a um irmão que libertou. E logo a seguir, bruscamente, é o rei de direito divino, à Carlos V ou à Filipe Augusto, apoiando altivamente o seu ceptro gótico sobre o dorso do seu povo, estabelecendo como norma de todo o governo o sic volo sic jubeo, reduzindo a "suma lei à vontade do rei" e, certo da sua infalibilidade, sacudindo desdenhosamente para além das fronteiras todos os que nela não crêem com devoção. O mundo pasma - e, de repente, ele é o rei de corte, mundano e faustoso, atento meramente ao brilho e ordem sumptuosa da etiqueta, regulando as galas e as mascaradas, decretando a forma do penteado das damas, condecorando com a Ordem da Coroa os oficiais que melhor valsam nos cotillons, e querendo volver Berlim num Versalhes donde emane o preceito supremo do cerimonial e do gosto. O mundo sorri - e repentinamente é o rei moderno, o rei século dezanove, tratando de caturra o passado, expulsando da educação as humanidades e as letras clássicas, determinando criar pelo parlamentarismo a maior soma de civilização material e industrial, considerando a fábrica como o mais alto dos templos, e sonhando uma Alemanha movida toda pela electricidade.

Depois, por vezes, desce do seu palco - quero dizer do seu trono - e viaja, dá representações através das cortes estrangeiras. E aí, desembaraçado da majestade imperial, que em Berlim imprime a todas as suas figurações um carácter imperial, aparece livremente sob as formas mais interessantes que pode revestir nas sociedades o homem de imaginação. A caminho de Constantinopla, singrando os Dardanelos, na sua frota, é o artista que em telegramas ao chanceler do império (em que assina imperator rex) pinta, numa forma carregada de romantismo e cor, o azul dos céus orientais, a doçura lânguida das costas da Ásia. No Norte, nos mares escandinavos, entre os austeros fiordes da Noruega, ao rumor das águas degeladas que rolam por entre a penumbra dos abetos, é o místico, e prega sermões sobre o seu tombadilho, provando a inanidade das coisas humanas, aconselhando às almas como única realidade fecunda a comunhão com o eterno. Voltando da Rússia é o alegre estudante, como nos bons tempos de Bona, e da fronteira escreve para Sampetersburgo ao marechal do palácio uma carta em verso, fantasistamente rimada, a agradecer o caviar e as sanduíches de foie-gras colocadas no seu vagão como provido farnel de jornada. Em Inglaterra está em um luxuoso centro de sociabilidade, e é o dândi, com os dedos faiscantes de anéis, um cravo enorme na sobrecasaca clara, borboleteando e furtando com a veia soberba de um D'Orsay. E subitamente, em Berlim, por alta noite, as cornetas soltam ásperos toques de alarme, todos os fios da Agência Havas estremecem, a Europa, assustada, corre às gazetas, e um rumor passa, temeroso, de que "haverá guerra na Primavera". Que foi? No es nada, como se canta no Pan y Toros. É apenas Guilherme II que ressubiu ao seu palco - quero dizer ao seu trono.

O mundo, perplexo, murmura: "Quem é este homem tão vário e múltiplo? O que haverá, o que germina dentro daquela cabeça regulamentar de oficial bem penteado?" E o Sr. Renan geme por morrer talvez antes de assistir, como filósofo, ao desenvolvimento completo desta ondeante personalidade. Assim, Guilherme II se tornou um problema contemporâneo - e há sobre ele teorias como sobre o magnetismo, a influenza, ou o planeta Marte. Uns dizem que ele é simplesmente um moço desesperadamente sedento da fama que dão as gazetas (como Alexandre, o Grande, que, em risco de se afogar, já sufocado, pensava no "que diriam os Atenienses") e que, mirando à publicidade, prepara as suas originalidades com o método, a paciência e a arte espectacular com que Sara Bernhardt compõe as suas toilettes. Outros sustentam que há nele apenas um fantasista em desequilíbrio, arrebatado estonteadamente por todos os impulsos de uma imaginação mórbida, e que, por isso mesmo que é imperador quase omnipotente, exibe soltamente sem que uma resistência vigilante lhos coíba e lhos limite todos os desregramentos da fantasia. Outros, por fim, pretendem que ele é apenas um Hohenzollern em que se somaram e conjuntamente afloraram com imenso aparato todas as qualidade de cesarismo, misticismo, sargentismo, burocratismo e voluntarismo que alternadamente caracterizavam os reis sucessivos desta felicíssima raça de fidalgotes de Brandeburgo.

Talvez cada uma destas teorias, como sucede felizmente com todas as teorias, contenha uma parcela de verdade. Mas eu antes penso que o imperador Guilherme é simplesmente um diletante da acção - quero dizer um homem que ama fortemente a acção, compreende e sente com superior intensidade os prazeres infinitos que ela oferece, e a deseja portanto experimentar e gozar em todas as formas permissíveis da nossa civilização. [...] Hoje que se libertou da dura superintendência do velho Bismarck pode abandonar-se ao seu insaciável diletantismo da acção com a licença "com que o corcel novo (como diz a Bíblia) galopa no deserto mudo". Quer ele o gozo de comandar vastas massas de soldados, ou de sulcar os mares numa frota de ferro? Tem só de lançar um telegrama, fazer ressoar um clarim.

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Tudo pode, porque governa dois milhões de soldados e um povo que só zela a sua liberdade nos domínios da filosofia, da ética ou da exegese, e que quando o seu imperador lhe ordena que marche - emudece e marcha.

E tudo pode ainda porque inabalavelmente acredita que Deus está com ele, o inspira e sanciona o seu poder.

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E a certeza, o hábito desta sobrenatural aliança vai nele crescendo tanto que de cada vez alude a Deus em termos de maior igualdade - como aludiria a Francisco de Áustria, ou a Humberto, rei de Itália. Outrora ainda o denominava, com reverência, o "amo que está nos céus", o "muito alto que tudo manda". Ultimamente, porém, arengando com champanhe aos seus vassalos da marca de Brandeburgo, já chama familiarmente a Deus - o "meu velho aliado"! E aqui temos Guilherme & Deus, como uma nova firma social, para administrar o universo. Pouco a pouco mesmo, talvez Deus desapareça da firma e da tabuleta, como sócio subalterno que entrou apenas com o capital da luz, da Terra e dos homens, e que não trabalha, ocioso no seu infinito, deixando a Guilherme a gerência do vasto negócio terrestre - e teremos então apenas Guilherme & Cia. Guilherme, com supremos poderes, fará todas as operações humanas.

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Ora, se ele dirigisse um império situado nos confins da Ásia, ou se não possuísse na Torre Júlia um tesouro de guerra para manter e armar dois milhões de soldados, ou se estivesse cercado por uma opinião pública tão activa e coercitiva como a da Inglaterra, Guilherme II seria apenas um imperador, como tantos, na história, curioso pela mobilidade da sua fantasia e pela ilusão do seu messianismo. Mas, infelizmente, plantado no Centro da Europa trabalhadora, com centenares de legiões disciplinadas, um povo de cidadãos disciplinados também e submissos como soldados, Guilherme II é o mais perigoso dos reis, porque falta ainda ao seu diletantismo experimentar a forma da acção mais sedutora para um rei - a guerra e as suas glórias. E bem pode suceder que a Europa um dia acorde ao fragor de exércitos que se entrechocam, só porque na alma do grande diletante o fogoso apetite de "conhecer a guerra", de gozar a guerra, sobrepujou a razão, os conselhos e a piedade da pátria.

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Guilherme II está na verdade jogando contra o destino esses terríveis dados de ferro, a que aludia outrora o esquecido Bismarck. Se ganha dentro e fora da fronteira, poderá ter altares como teve Augusto (e de facto também Tibério). Se perde é o exílio, o tradicional exílio, em Inglaterra, o cabisbaixo exílio, esse exílio que ele hoje tão duramente intima àqueles que discrepam da sua infalibilidade.

E não se mostraram já os prenúncios vagos do desastre?

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Onde estão os tempos em que Hegel considerava a autocracia prussiana quase como uma parte integrante da sua filosofia e da ordem do universo? [...] Tudo passou. A metafísica rosna descontente. Das duas grossas pedras angulares da monarquia prussiana, o filósofo e o soldado, Guilherme II hoje só tem o soldado - e o trono, sobrecarregado com o imperador e o seu Deus, pende todo para um lado, que é talvez o do abismo.

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Dentro de anos, com efeito (que Deus faça bem lentos e bem longos), este moço ardente, imaginativo, simpático, de coração sincero e talvez heróico, pode bem estar, com tranquila majestade, no seu schloss de Berlim gerindo os destinos da Europa, ou pode estar, melancolicamente, no Hotel Metrópole, em Londres, desempacotando da maleta do exílio a dupla coroa amolgada da Alemanha e da Prússia.


Mais:
Farpas
Ultimatum

domingo, 1 de outubro de 2017

O terror

Adeus às Armas Trechos de O Terror (1917), de Arthur Machen.


Depois de dois anos, voltamo-nos mais uma vez para as notícias matutinas com uma sensação de apetite e alegre expectativa. Houve emoções no início da guerra; a emoção do horror e de um destino que parecia ao mesmo tempo inacreditável e certo. Isso se deu quando Namur sucumbiu e as hostes alemãs invadiram como cheia os campos franceses e se acercaram muito perto dos muros de Paris. Depois sentimos a emoção do júbilo quando chegou a boa notícia de que a medonha maré havia recuado, que Paris e o mundo estavam salvos, ao menos por algum tempo.

Assim, durante dias, aguardamos outras notícias tão boas como essa, ou melhores. Foi o general von Kluck cercado? Hoje não, talvez amanhã sim. No entanto, os dias se tornaram em semanas, as semanas se prolongaram em meses; a batalha do Ocidente parecia paralisada. De vez em quando, faziam-se coisas que pareciam esperançosas, com a promessa de acontecimentos ainda melhores. Mas Neuve Chapelle e Loos se reduziram a desapontamentos à medida que se contavam histórias a seu respeito; as formações em linha no Ocidente permaneceram, para todos os propósitos práticos de vitória, imobilizadas. Nada parecia acontecer, nada havia para ler, exceto o registro das operações, que eram claramente fúteis e insignificantes. As pessoas se perguntavam qual era o motivo dessa inação. Os esperançosos diziam que Joseph Joffre tinha um plano, que ele estava "cauteloso"; outros declaravam que estávamos sem munição; outros, mais uma vez, que os novos recrutas ainda não estavam prontos para a batalha. De modo que os meses passaram, e quase dois anos de guerra se haviam completado quando a inerte linha de frente inglesa começou a se mexer e estremecer como se despertasse de um longo sono, e começou a avançar, esmagando o inimigo.

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O segredo da longa inação do exército britânico foi bem mantido. De um lado, foi rigorosamente protegido pela censura, que severa, e às vezes severa a ponto da absurdidade - "o capitão e os (...) partem", por exemplo -, tornou-se, em especial nesse aspecto, feroz.

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Devo ter dado a entender que o antigo ofício do boato não existe mais. A mim me farão lembrar da estranha lenda dos "russos" e da mitologia dos "anjos de Mons". Mas gostaria de observar, em primeiro lugar, que a ampla divulgação desses dois disparates dependeu dos jornais. Se não existissem jornais ou revistas, russos e anjos teriam feito apenas uma breve e vaga aparição das mais obscuras - alguns poucos teriam sabido deles, nem tantos desses poucos teriam acreditado neles, deles se teriam falado por uma ou duas semanas e, desse modo, teriam desaparecido.

E depois, mais uma vez, o próprio fato de que por um tempo se acreditou nesses boatos fúteis e nessas histórias fantásticas foi fatal para a credibilidade de qualquer rumor que tivesse se espalhado pelo país. As pessoas botaram fé duas vezes; viram indivíduos sérios, homens de boa reputação, pregar e preconizar os notáveis procedimentos que haviam salvado o exército britânico em Mons, ou testemunharam trens, repletos de russos de casacos cinzas, atravessarem o país a altas horas da noite; e agora havia um sinal de algo mais espantoso do que qualquer uma das lendas desacreditadas. Mas dessa vez não havia uma palavra sequer de confirmação nos jornais diários ou semanários, ou nas revistas paroquiais, de modo que os poucos que souberam riram-se ou, sendo sérios, foram para casa e fizeram algumas anotações para ensaios sobre "A psicologia do tempo de guerra: delírios coletivos".

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Minha curiosidade havia, de algum modo, sido despertada por um determinado parágrafo relativo a um "Acidente fatal com conhecido piloto-aviador". A hélice do avião havia sido despedaçada, aparentemente numa colisão com um bando de pombos. As pás haviam sido quebradas e o motor caíra como chumbo na terra. E, logo após ter lido essa notícia, tomei conhecimento de algumas circunstâncias bastante estranhas relacionadas a uma explosão numa grande fábrica de munições num condado do centro da Inglaterra. Pensei na possibilidade de haver uma conexão entre os dois diferentes acontecimentos.

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Sem dúvida, as pessoas pensavam, as restrições e as proibições do governo só podiam se referir à guerra, a um grande perigo relacionado à guerra. E, sendo assim, resultava que as atrocidades, que deveriam permanecer em segredo, eram obra do inimigo, ou seja, de agentes alemães disfarçados.

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Bem, eu disse que as pessoas desse distante condado ocidental se deram conta não só de que a morte se espalhava por todas as suas tranquilas veredas e sobre suas colinas serenas mas também de que, por algum motivo, tinha de ser mantida em segredo. Os jornais não publicavam qualquer notícia a respeito, os próprios jurados encarregados de investigá-la não estavam autorizados a realizar qualquer investigação. Desse modo, concluiu-se que este véu de segredo devia estar, de algum modo, relacionado à guerra; e, a partir dessa posição, não se estava muito longe de fazer mais uma inferência: a de que os assassinos de homens e mulheres inocentes eram alemães ou agentes da Alemanha. Era típico dos alemães, todos concordavam, cogitar tal plano diabólico; e eles sempre cogitaram planos com antecipação. Esperavam tomar Paris em poucas semanas, mas, quando foram derrotados no Marne, já estavam preparados para abrir trincheiras no Aisne: tudo havia sido pensado anos antes da guerra. E portanto, sem dúvida, conceberam esse terrível plano contra a Inglaterra, para o caso de não conseguirem derrotar os ingleses em combates abertos: havia pessoas preparadas, muito provavelmente em todo o país, dispostas a matar e destruir em toda parte assim que recebessem a notícia. Dessa maneira os alemães tinham a intenção de semear o terror em todo o território inglês e encher nossos corações de pânico e desalento, na esperança de assim enfraquecer o inimigo no próprio país para que perdesse toda a disposição de lutar na guerra no exterior. Era a ideia do Zepelim, sob outra forma; cometiam essas atrocidades horríveis e misteriosas pensando em nos apavorar até chegarmos à loucura completa.

Tudo parecia bastante plausível. A Alemanha havia, nessa época, perpetrado tantos horrores e havia se sobressaído de tal maneira em engenhosidades diabólicas que nenhuma abominação parecia demasiado abominável para ser improvável, ou demasiado perversa para estar além da desonesta malignidade dos alemães. Mas, então, surgiram as questões de quem seriam os agentes desse terrível plano, de onde teriam vindo, de como conseguiriam se movimentar despercebidos de um campo para outro, de uma vereda para outra.

Fizeram-se tentativas de todos os tipos para esclarecer essas questões, mas pressentia-se que permaneciam não esclarecidas. Alguns sugeriram que os assassinos chegaram de submarino, ou voaram de esconderijos na costa oeste da Irlanda, chegando e partindo à noite. Havia, porém, impossibilidades flagrantes nessas duas sugestões. Todos concordavam que os atos malignos eram, sem dúvida, obra da Alemanha, mas ninguém era capaz de ter uma ideia de como foram perpetrados. Alguém no clube perguntou a Remnant qual era sua teoria.

- A minha teoria - disse essa pessoa sincera - é que o progresso humano é apenas uma longa marcha de uma coisa inconcebível a outra. Veja, por exemplo, aquele nosso avião que sobrevoou Porth ontem: dez anos atrás, esta seria uma visão inconcebível. Tome, como exemplo, a máquina a vapor, a impressão, a teoria da gravidade: eram todas inconcebíveis até que alguém pensou nelas. De modo que é, sem dúvida, dessa trapaçaria infernal que estamos falando: os alemães a encontraram, e nós não; aí é que está. Não conseguimos conceber como as pobres dessas pessoas foram assassinadas, porque para nós o método é inconcebível.

O clube ouviu este elevado argumento com uma certa estupefação. Depois que Remnant se retirou, um membro disse:

- Eis um homem extraordinário.

- Sim - retrucou o dr. Lewis. - Perguntaram-lhe se ele sabia de alguma coisa. E a resposta dele de fato se resumiu a: - Não, não sei. Mas nunca ouvi isso ser tão bem colocado.

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- Estamos vivendo sob um reino de terror. Chega a este ponto.

- Mas o que é que você quer dizer com isso?

- Bom, acho que para você eu posso contar, sei disso. Não é muita coisa. Achei que era melhor nem escrever. Mas você sabe que em toda fábrica de munições, em Midlingham, e nas cercanias de todas elas, há uma guarda de soldados com baionetas e rifles carregados dia e noite? Homens com bombas também. E metralhadoras nas fábricas maiores.

- Espiões alemães?

- Lewis, ninguém usa armas para lutar contra espiões. Nem bombas. Nem um pelotão de homens. Acordei ontem de noite. Era a metralhadora na fábrica de veículos militares de Benington. Disparando como fúria. E depois bangue! Bangue! Eram as granadas.

- Mas contra o quê?

- Ninguém sabe.

- Ninguém sabe o que está acontecendo - Merritt repetiu, e prosseguiu descrevendo a perplexidade e o terror que pairavam como nuvens sobre a grande cidade industrial no centro da Inglaterra, de que modo o sentimento de encobrimento, de algum intolerável perigo secreto que não deveria ser nomeado, era o que havia de pior. - Um sujeito jovem que conheço - disse ele - tinha recebido uma breve dispensa da frente de combate e passou o período de licença com os familiares em Belmont, que fica a uns seis quilômetros de Midlingham, como você sabe. Ele me disse: "Graças a Deus que estou voltando amanhã. É tolice dizer que as linhas de entrincheiramento de Wipers são agradáveis, porque não são. Mas é uma vista melhor do que esta aqui. Na frente de batalha pelo menos você sabe contra o que está lutando." Em Midlingham todo mundo tem a sensação de que está contra uma coisa horrível mas não sabe o que é. É isso que faz as pessoas se disporem ao boato. Há terror no ar.

Merritt traçou uma espécie de retrato da grande cidade se encolhendo de medo de um perigo desconhecido.

- As pessoas têm medo de sair sozinhas à noite nos arredores. Reúnem-se em grupos nas estações para ir para casa juntas, se já está escuro ou se há trechos desolados no caminho.

- Mas por quê? Não entendo. Do que é que têm medo?

- Bom, eu lhe contei que acordei uma noite com os disparos das metralhadoras na fábrica de veículos militares, e com as bombas explodindo e fazendo um barulho terrível. Esse tipo de coisa assusta a gente, você sabe. É uma coisa natural.

- De fato, deve ser assustador. Você quer dizer então que há uma atmosfera de nervosismo geral, uma vaga espécie de apreensão que leva as pessoas a se juntarem?

- Tem isso, e tem mais. Tem gente que partiu e nunca mais voltou.

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As pessoas que acham que Llandudno é superpovoada e que Colwyn Bay é demasiado selvagem, vermelha e nova, vêm, ano após ano, à plácida cidade velha no sudoeste e apreciam sua tranquilidade. E, como digo, ali se divertiram da mesma forma no verão de 1915. De vez em quando, davam-se conta, assim como o sr. Merritt se deu conta, de que não podiam perambular tal como no passado costumavam fazê-lo. Mas aceitavam as sentinelas, os guardas costeiros, as pessoas que educadamente salientavam as vantagens de ver uma vista deste e não daquele lugar, como consequências necessárias da horrenda guerra em curso. Mais ainda, como disse um homem de Manchester, depois de ter sido impedido de realizar seu passeio preferido até Castell Coch, era confortador pensar que fossem tão bem protegidos.

- Tanto quanto percebo - acrescentou -, não há nada que impeça a presença de um submarino perto de Ynys Sant e o desembarque de meia dúzia de homens num barco desmontável em qualquer uma dessas pequenas enseadas. E faríamos papel de bobos, não é mesmo, ao cair com a garganta cortada em cima da areia; ou ao ser transportados para a Alemanha no submarino? - Deu ao guarda costeiro meia coroa. - Está certo, camarada - disse -, você nos dá o palpite.

Agora, eis algo estranho. O homem do norte da Inglaterra pensava em submarinos e incursores alemães ardilosos; o guarda costeiro tinha simplesmente recebido instruções para manter as pessoas longe dos campos de Castell Coch, sem um motivo alegado. E não há dúvida de que as próprias autoridades, embora tivessem demarcado os campos como uma "zona de terror", deram as ordens no escuro e elas mesmas se achavam profundamente no escuro quanto à forma da matança lá ocorrida. Pois, se tivessem compreendido o que acontecera, teriam compreendido também que as restrições eram inúteis.

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O cabo deu rispidamente uma ordem por cima do ombro e o ruído metálico tilintou quando os homens encaixaram as baionetas e num instante se transformaram em assustadores concessionários da morte, em lugar dos inofensivos sujeitos que apreciavam uma cerveja.

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Não seria prudente, mesmo agora, descrever com minúcias as terríveis cenas que se viram nas áreas de munição do norte e do centro do país durante os meses sinistros do terror. Das fábricas saíam, na escura meia-noite, os cadáveres amortalhados em caixões, e seus próprios familiares não sabiam de que modo tinham morrido. Em todas as cidades, inúmeras casas observavam luto, inúmeras casas ressoavam rumores lúgubres e terríveis. Inacreditável, como a inacreditável realidade. Houve coisas feitas e sofridas que talvez jamais venham à luz, cujas recordações e tradições secretas serão murmuradas em famílias, transmitidas de pai para filho, tornando-se mais fantásticas com a passagem dos anos, mas nunca mais fantásticas do que a verdade.

Basta dizer que a causa dos aliados esteve, por algum tempo, em perigo mortal. Os homens na frente de batalha, no extremo da adversidade, pediam armas e bombas. Ninguém lhes contou o que estava ocorrendo nos lugares em que essas munições eram fabricadas. No princípio, a situação era simplesmente desesperadora. Homens em altos postos estavam quase propensos a gritar "misericórdia" para o inimigo. Após o pânico inicial, porém, tomaram-se medidas, como as descritas por Merritt em seu relato sobre o caso. Os operários estavam de posse de armas especiais, guardas estavam a postos, metralhadoras foram colocadas estrategicamente, bombas e líquidos inflamáveis estavam prontos para ser lançados contra as obscenas hordas inimigas, e as "nuvens ardentes" se defrontaram com um fogo mais feroz do que o delas mesmas. Muitas mortes ocorreram entre os pilotos-aviadores. Mas também eles dispunham de armas especiais, armas que disseminavam chumbo de modo a afastar os voos sinistros que ameaçavam os aviões.

E então, no inverno de 1915-1916, o terror cessou tão subitamente quanto começou.


Mais:
Gustav Meyrink
H.P. Lovecraft
http://www.youtube.com/watch?v=G0KQYHJ6K_s