La saga dei Pirandello: Il figlio prigioniero, la follia della moglie e un nuovo teatro
(Salvatore Scalia)
Nel lungo racconto "Berecche e la Guerra" Luigi Pirandello descrive la disperazione di una madre per il figlio partito volontario per la Grande guerra: "Non vede nulla; non ode nulla; di tratto in tratto s'avventa contro l'uscio dello studio; lo sforza a furia di manate, di spallate, di ginocchiate e si scaglia contro il marito, gli si para davanti con le dita artigliate su la faccia, come volesse sbranarlo, e gli urla, feroce: Voglio mio figlio! Voglio mio figlio! Assassino! voglio mio figlio! voglio mio figlio!"
Berecche la compatisce per uno strazio che condivide, ne osserva lo sguardo da folle e scoppia a piangere "sul grigio capo scarmigliato della vecchia compagna non amata".
Il racconto concepito nei mesi che precedono l'entrata in guerra dell'Italia, nel maggio del 1915, e rielaborato in quelli immediatamente successivi, è la trasposizione letteraria della situazione in casa Pirandello. Lo scrittore proietta in Berecche il proprio dilemma se sia giusto abbandonare l'alleanza con Austria e Germania, facendolo propendere per il sì; Stefano, il primogenito, è partito volontario dopo avere partecipato a manifestazioni interventiste a Roma; e in famiglia la situazione, sempre tesa per gli scatti di follia della madre Antonietta Portulano, è peggiorata. Ad accentuare il carattere autobiografico del racconto, Pirandello inserisce una lettera dal fronte del figlio, e, approfittando della finzione letteraria, dichiara il disamore per la "compagna non amata".
L'ansia per Stefano, e l'ostilità interna alla famiglia costituiscono due dei tre fronti su cui si batté Pirandello negli anni della Grande guerra; il terzo fu la rivoluzione teatrale di cui fu protagonista dal 1916 in poi.
Stefano era andato ad arruolarsi il 31 dicembre del 1914. A fine luglio 1915, col grado di sottotenente, era stato inviato al fronte e il 2 novembre era caduto prigioniero degli austriaci. Cominciò così una lunga prigionia prima a Mauthausen e poi, dopo la disfatta di Caporetto, a Plan in Boemia. Fu liberato a guerra finita, nel novembre del 1918. In tutti questi anni di segregazione, Pirandello ebbe il pensiero costantemente rivolto al figlio, alla sua salute mentale e fisica, attento a decifrare dalle lettere segni di cedimento, sempre pronto a incoraggiarlo e a proporsi come esempio: l'unico rimedio era il lavoro. Stefano, che sarebbe divenuto scrittore anche lui, abbozzò in quegli anni le prime opere letterarie.
La guerra provocò in casa Pirandello lunghi periodi di tregua, per non provocare ulteriori sofferenze al figlio prigioniero. Incombeva però la memoria di quanto era acceduto nell'aprile del 1914: Antonietta, durante una delle sue frequenti fughe a Girgenti, aveva dato in escandescenze, sentendosi perseguitata da preti e carabinieri, rischiando il manicomio da cui l'aveva salvata il marito. La paura di essere ricoverata e l'ansia per Stefano sedarono la sua aspirazione a essere "Libbera e indipendente. Indipendente e libbera."
Il rapporto coniugale si era deteriorato nel 1903, quando nel fallimento del suocero Stefano Pirandello si erano volatilizzate le settantamila lire di dote della nuora e la relativa rendita annuale. Antonietta per mesi era rimasta paralizzata alle gambe. La deprivazione economica, sociale e morale si mutò in odio implacabile verso il marito. A volte lo cacciava dalla stanza coniugale, altre persino dalla casa, e spesso si rifugiava a Girgenti portandosi dietro l'uno o l'altro dei tre figli: Stefano, Fausto e Lietta che fu la vittima predestinata.
Le lettere che da casa Pirandello partivano verso il campo di prigionia riguardo alla situazione familiare abbondavano di formule convenzionali. Stefano, prima di essere fatto prigioniero, fu informato solo di una crisi nell'agosto del 1915 e le inviò un'invocazione: "Mamma, non mi fare bruciare dentro." Poi fu tenuto all'oscuro del tentato suicidio della sorella che, angariata e remissiva, il 15 aprile del 1916 si chiuse nella sua stanza e premette il grilletto di una pistola che il padre deteneva in casa. L'arma fece cilecca e la ragazza fuggì di casa. La crisi fu superata, ma Pirandello scrisse alla sorella Lina che, finita la guerra e rientrato Stefano, la cosa migliore sarebbe stata ricoverare la moglie in una casa di cura.
Stefano era stato il confidente, il primo lettore delle opere del padre, e Pirandello lo informava costantemente della sua attività. In una lettera del 25 febbraio 1916, gli raccontò di avere assistito al teatro Morgana a "Lumie di Sicilia", "che hanno avuto un felicissimo esito nella meravigliosa interpretazione di Musco", e di aver promesso all'attore catanese che avrebbe ricavato per lui un dramma dalla novella "Pensaci, Giacomino!"
Cominciava così con un testo dalla morale anticonvenzionale, con una straordinaria e inarrestabile vena creativa, la rivoluzione teatrale di Pirandello. La messinscena il 10 luglio, annuncia al figlio in una lettera scritta il giorno dopo, ha avuto un esito trionfale, "Musco è stato grande". Il giorno 14 ritorna sull'argomento: "Musco è entusiasta della sua parte, che dà la misura intera del suo valore artistico, impedendogli d'abbandonarsi ai comici acrobatismi di dubbio gusto del Paraninfo e del San Giovanni decollato."
Il successo alimentò il sogno di rifugiarsi in una "bicocchetta" di montagna. "La mia più viva soddisfazione sarà di lanciare di lassù un solennissimo sputo a tutta la civiltà."
Il 24 ottobre comunica al figlio di avere scritto in quindici giorni "Liolà": "Ma la sentirai al tuo ritorno, perché certo questa è opera che vivrà a lungo."
Nel gennaio 1917 riferisce di "gravi dissensi" con Musco. Sebbene l'attore avesse contribuito al successo, Pirandello s'indispettiva delle libertà da guitto, anche perché era convinto che ai suoi testi non si addicessero i modi farseschi. Ebbe come alleato Martoglio, ed entrambi proibirono a Musco di recitare i loro testi. Anche se si rappacificarono, comunque le loro strade erano destinate a divaricarsi.
Il teatro di Pirandello, anche se non parla di guerra, coglie i mutamenti psicologici della società sull'onda lunga della deflagrazione umana e morale delle masse schierate in trincea. Il richiamo agli effetti del conflitto è implicito nel linguaggio bellico utilizzato da Antonio Gramsci recensendo "Il piacere dell'onestà" nel novembre del 1917 sul quotidiano socialista "Avanti!": "Luigi Pirandello è un 'ardito' del teatro. Le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero."
La tregua in famiglia si ruppe per l'ennesima esplosione di follia di Antonietta che nel giugno del 1918 aggredì la figlia accusandola di volersi sostituire a lei, di tramare per ucciderla e impossessarsi dell'eredità, e perfino di rapporti incestuosi con il padre. Lietta si rifugiò presso gli zii a Viareggio. Pirandello scrisse alla sorella Lina che "aveva appuntato contro di lei tutta la ferocia della sua laida pazzia". Stefano, ignaro di tutto e presentendo imminente la liberazione, si illudeva: "Voglio ritrovarvi tutti uniti, nella santa pace di casa nostra, casa mia!"
In effetti Pirandello si era rivolto al Vaticano per sollecitare uno scambio di prigionieri. La pratica arrivò al presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando ma il tentativo fallì perché le autorità austriache pretendevano la liberazione di tre valenti ufficiali in cambio del figlio di un'illustre personalità italiana.
Finita la guerra, il ritorno del reduce fu traumatico: si trovò dinanzi alla irrevocabile decisione del padre di ricoverare la moglie. Tentò di resistere, vagheggiò di vivere con lei, ma alla fine si arrese all'evidenza. Certo era impossibile ad un figlio dare un giudizio reciso su una madre che per lettera gli aveva espresso una riflessione così profonda sulla condizione femminile: "Non escludo che questo avviene anche in molte famiglie del continente e via di seguito, ma in Sicilia la donna deve rappresentare Mater dolorosa. Niente distrazioni, niente vestire, niente amore, niente dignità, servire, servire, servire, ecco quello che si vuole da me. E' possibile?"
A quel destino senza vie d'uscita, lei stessa preferì la casa di cura.
Archiviata la guerra vittoriosa come lutto e insano massacro; dei tre fronti su cui era stato impegnato Luigi Pirandello, due ebbero esito positivo, il figlio era tornato e sulla scena la sua marcia era stata trionfale; ma la guerra di logoramento con la moglie non poteva avere né vinti né vincitori, per tutti rimase una ferita bruciante.
Fonte:
http://milocca.wordpress.com/2014/09/12/la-saga-dei-pirandello
Mais:
http://pirandelloonline.altervista.org/primaguerramondiale.htm
http://altritaliani.net/spip.php?article2072
(Salvatore Scalia)
Nel lungo racconto "Berecche e la Guerra" Luigi Pirandello descrive la disperazione di una madre per il figlio partito volontario per la Grande guerra: "Non vede nulla; non ode nulla; di tratto in tratto s'avventa contro l'uscio dello studio; lo sforza a furia di manate, di spallate, di ginocchiate e si scaglia contro il marito, gli si para davanti con le dita artigliate su la faccia, come volesse sbranarlo, e gli urla, feroce: Voglio mio figlio! Voglio mio figlio! Assassino! voglio mio figlio! voglio mio figlio!"
Berecche la compatisce per uno strazio che condivide, ne osserva lo sguardo da folle e scoppia a piangere "sul grigio capo scarmigliato della vecchia compagna non amata".
Il racconto concepito nei mesi che precedono l'entrata in guerra dell'Italia, nel maggio del 1915, e rielaborato in quelli immediatamente successivi, è la trasposizione letteraria della situazione in casa Pirandello. Lo scrittore proietta in Berecche il proprio dilemma se sia giusto abbandonare l'alleanza con Austria e Germania, facendolo propendere per il sì; Stefano, il primogenito, è partito volontario dopo avere partecipato a manifestazioni interventiste a Roma; e in famiglia la situazione, sempre tesa per gli scatti di follia della madre Antonietta Portulano, è peggiorata. Ad accentuare il carattere autobiografico del racconto, Pirandello inserisce una lettera dal fronte del figlio, e, approfittando della finzione letteraria, dichiara il disamore per la "compagna non amata".
L'ansia per Stefano, e l'ostilità interna alla famiglia costituiscono due dei tre fronti su cui si batté Pirandello negli anni della Grande guerra; il terzo fu la rivoluzione teatrale di cui fu protagonista dal 1916 in poi.
Stefano era andato ad arruolarsi il 31 dicembre del 1914. A fine luglio 1915, col grado di sottotenente, era stato inviato al fronte e il 2 novembre era caduto prigioniero degli austriaci. Cominciò così una lunga prigionia prima a Mauthausen e poi, dopo la disfatta di Caporetto, a Plan in Boemia. Fu liberato a guerra finita, nel novembre del 1918. In tutti questi anni di segregazione, Pirandello ebbe il pensiero costantemente rivolto al figlio, alla sua salute mentale e fisica, attento a decifrare dalle lettere segni di cedimento, sempre pronto a incoraggiarlo e a proporsi come esempio: l'unico rimedio era il lavoro. Stefano, che sarebbe divenuto scrittore anche lui, abbozzò in quegli anni le prime opere letterarie.
La guerra provocò in casa Pirandello lunghi periodi di tregua, per non provocare ulteriori sofferenze al figlio prigioniero. Incombeva però la memoria di quanto era acceduto nell'aprile del 1914: Antonietta, durante una delle sue frequenti fughe a Girgenti, aveva dato in escandescenze, sentendosi perseguitata da preti e carabinieri, rischiando il manicomio da cui l'aveva salvata il marito. La paura di essere ricoverata e l'ansia per Stefano sedarono la sua aspirazione a essere "Libbera e indipendente. Indipendente e libbera."
Il rapporto coniugale si era deteriorato nel 1903, quando nel fallimento del suocero Stefano Pirandello si erano volatilizzate le settantamila lire di dote della nuora e la relativa rendita annuale. Antonietta per mesi era rimasta paralizzata alle gambe. La deprivazione economica, sociale e morale si mutò in odio implacabile verso il marito. A volte lo cacciava dalla stanza coniugale, altre persino dalla casa, e spesso si rifugiava a Girgenti portandosi dietro l'uno o l'altro dei tre figli: Stefano, Fausto e Lietta che fu la vittima predestinata.
Le lettere che da casa Pirandello partivano verso il campo di prigionia riguardo alla situazione familiare abbondavano di formule convenzionali. Stefano, prima di essere fatto prigioniero, fu informato solo di una crisi nell'agosto del 1915 e le inviò un'invocazione: "Mamma, non mi fare bruciare dentro." Poi fu tenuto all'oscuro del tentato suicidio della sorella che, angariata e remissiva, il 15 aprile del 1916 si chiuse nella sua stanza e premette il grilletto di una pistola che il padre deteneva in casa. L'arma fece cilecca e la ragazza fuggì di casa. La crisi fu superata, ma Pirandello scrisse alla sorella Lina che, finita la guerra e rientrato Stefano, la cosa migliore sarebbe stata ricoverare la moglie in una casa di cura.
Stefano era stato il confidente, il primo lettore delle opere del padre, e Pirandello lo informava costantemente della sua attività. In una lettera del 25 febbraio 1916, gli raccontò di avere assistito al teatro Morgana a "Lumie di Sicilia", "che hanno avuto un felicissimo esito nella meravigliosa interpretazione di Musco", e di aver promesso all'attore catanese che avrebbe ricavato per lui un dramma dalla novella "Pensaci, Giacomino!"
Cominciava così con un testo dalla morale anticonvenzionale, con una straordinaria e inarrestabile vena creativa, la rivoluzione teatrale di Pirandello. La messinscena il 10 luglio, annuncia al figlio in una lettera scritta il giorno dopo, ha avuto un esito trionfale, "Musco è stato grande". Il giorno 14 ritorna sull'argomento: "Musco è entusiasta della sua parte, che dà la misura intera del suo valore artistico, impedendogli d'abbandonarsi ai comici acrobatismi di dubbio gusto del Paraninfo e del San Giovanni decollato."
Il successo alimentò il sogno di rifugiarsi in una "bicocchetta" di montagna. "La mia più viva soddisfazione sarà di lanciare di lassù un solennissimo sputo a tutta la civiltà."
Il 24 ottobre comunica al figlio di avere scritto in quindici giorni "Liolà": "Ma la sentirai al tuo ritorno, perché certo questa è opera che vivrà a lungo."
Nel gennaio 1917 riferisce di "gravi dissensi" con Musco. Sebbene l'attore avesse contribuito al successo, Pirandello s'indispettiva delle libertà da guitto, anche perché era convinto che ai suoi testi non si addicessero i modi farseschi. Ebbe come alleato Martoglio, ed entrambi proibirono a Musco di recitare i loro testi. Anche se si rappacificarono, comunque le loro strade erano destinate a divaricarsi.
Il teatro di Pirandello, anche se non parla di guerra, coglie i mutamenti psicologici della società sull'onda lunga della deflagrazione umana e morale delle masse schierate in trincea. Il richiamo agli effetti del conflitto è implicito nel linguaggio bellico utilizzato da Antonio Gramsci recensendo "Il piacere dell'onestà" nel novembre del 1917 sul quotidiano socialista "Avanti!": "Luigi Pirandello è un 'ardito' del teatro. Le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero."
La tregua in famiglia si ruppe per l'ennesima esplosione di follia di Antonietta che nel giugno del 1918 aggredì la figlia accusandola di volersi sostituire a lei, di tramare per ucciderla e impossessarsi dell'eredità, e perfino di rapporti incestuosi con il padre. Lietta si rifugiò presso gli zii a Viareggio. Pirandello scrisse alla sorella Lina che "aveva appuntato contro di lei tutta la ferocia della sua laida pazzia". Stefano, ignaro di tutto e presentendo imminente la liberazione, si illudeva: "Voglio ritrovarvi tutti uniti, nella santa pace di casa nostra, casa mia!"
In effetti Pirandello si era rivolto al Vaticano per sollecitare uno scambio di prigionieri. La pratica arrivò al presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando ma il tentativo fallì perché le autorità austriache pretendevano la liberazione di tre valenti ufficiali in cambio del figlio di un'illustre personalità italiana.
Finita la guerra, il ritorno del reduce fu traumatico: si trovò dinanzi alla irrevocabile decisione del padre di ricoverare la moglie. Tentò di resistere, vagheggiò di vivere con lei, ma alla fine si arrese all'evidenza. Certo era impossibile ad un figlio dare un giudizio reciso su una madre che per lettera gli aveva espresso una riflessione così profonda sulla condizione femminile: "Non escludo che questo avviene anche in molte famiglie del continente e via di seguito, ma in Sicilia la donna deve rappresentare Mater dolorosa. Niente distrazioni, niente vestire, niente amore, niente dignità, servire, servire, servire, ecco quello che si vuole da me. E' possibile?"
A quel destino senza vie d'uscita, lei stessa preferì la casa di cura.
Archiviata la guerra vittoriosa come lutto e insano massacro; dei tre fronti su cui era stato impegnato Luigi Pirandello, due ebbero esito positivo, il figlio era tornato e sulla scena la sua marcia era stata trionfale; ma la guerra di logoramento con la moglie non poteva avere né vinti né vincitori, per tutti rimase una ferita bruciante.
Fonte:
http://milocca.wordpress.com/2014/09/12/la-saga-dei-pirandello
Mais:
http://pirandelloonline.altervista.org/primaguerramondiale.htm
http://altritaliani.net/spip.php?article2072